Giornata di luglio sulla spiaggia, ragazze in bikini eccitanti e perizomi da urlo che ti fanno sentire autenticamente un perdente, sederi da “rendere satellite ogni essere vivente”, richiami di venditori di cocco e borse finte, odore di fritto misto e crema solare in un insieme che riesce a vincere anche il disperato tentativo della salsedine di posarsi sulla pelle.
Isolati nel mondo delle chat noi maschi si sta sul muretto del passaggio, quello dal quale si vedono le ragazze che arrivano prima da davanti per valutare le tette e poi l’ondeggiare dei fianchi o del sedere: più che guardare non si fa perché a 16 anni non guardano i coetanei, hanno già occhi lunghi di sirena e mire di cabriolet e sandali di Gucci.
Verso le 5, esaurito il rito del bagno con le alghe e la sabbia infilati nelle mutande si fanno le squadre per il calcetto sulla spiaggia.
Si gioca alle spalle dell’area dello stabilimento, una zona riservata al passaggio che a forza di essere calpestata da carrozzine, sandali, zoccoli e ruote di biciclette si è spellata, offrendo una piattaforma dura per il gioco disseminata di bastardi pezzi di mattone, calcinacci e cicche: un deserto di periferia subito dietro le cabine e i lettini da ottocentoeuri a stagione, perfetto per la squadra di derelitti che siamo, né carne né pesce, ragazzi.
La scelta delle squadre è ancora quel rito di terrore puro e tirannia che ha segnato le adolescenze di tutto il mondo dove la palla è tonda e per la miseria si può essere campione del mondo anche alle sette della sera quando il bagnino chiude i lettini e ti guarda male.
C’è quel tipo magro magro, alto alto, con gli occhi nascosti da occhialetti a mandorla da cretino, i capelli neri e le spalle di chi ha mangiato un attaccapanni per cena la sera precedente: lui si fa fatica a sceglierlo, e alla fine è solo per assenza di altri e più sportivamente qualificati avversari che diventa il portiere del Milan.
La squadra del Titta è così chiamata per il colore della pelle del capitano, mostruoso arazzo di croste levate via e abbronzatura da marinaio turco, la sua scarsa altezza e il gusto salace con il quale sa intrattenerci tutti con la descrizione delle parti più anatomicamente rilevanti di comparse e veline varie.
Il gioco è estasi pura, momento in cui dimentichi i brufoli, le spalle curve, tua madre in ciabatte e quel coso maledetto che la mattina ti ricorda che sei maschio senza darti la possibilità di dimostrarlo: il sole al tramonto trasforma facce qualunque in giovani eroi omerici, ogni grido un richiamo di battaglia, ogni passaggio un volo trionfale di colomba, ogni contrasto la dimostrazione belluina del proprio essere virili; sudore e sangue, come dice il Titta grattandosi via l’ennesima crosta.
Manca poco al richiamo del rito doccia – cena – vestirsi quando lo sgambetto in area smuove un risultato inchiodato sul 5 a 5: i tempi del gioco non sono scanditi da un banale cronometro, ma da eventi che nella loro ciclica ripetitività rendono il ritmo del passare delle ore, chiusura delle sdraie, rientro del carretto dei gelati, migrazione di massa degli ambulanti.
Il Titta si morde un labbro guardando il portiere che s’è scelto con un misto di arcigna preoccupazione e la cieca fiducia nel fato di un aruspice.
Mario l’armadio parte alla carica, finta di sinistro e spara un destro che dovrebbe spedire pallone e portiere all’indietro di cento metri, ululando, a imitazione del suo eroe biondicrinito “mò je faccio er cucchiaio!!”
Mario l’armadio parte alla carica, finta di sinistro e spara un destro che dovrebbe spedire pallone e portiere all’indietro di cento metri, ululando, a imitazione del suo eroe biondicrinito “mò je faccio er cucchiaio!!”
E nella luce trionfante di un tramonto d’oro e viola, il magro magro secco secco si piega, ondeggiando impassibile sulle ginocchia sino a tendere all’indietro la schiena, sostenuto solamente dai talloni arcuati, e allunga una mano in avanti, palma in su nel gesto di un vigile particolarmente intransigente, verso il razzo che sta per strappargli la testa.
“Il cucchiaio non esiste” sussurra con la voce carica di una saggezza antica, mentre il pallone frena e cade con aria vergognosa ai suoi piedi, rotolando via alla ricerca di un posto dove nascondersi.
Restiamo a guardarlo con occhi severi, il ragazzo magro e scuro dagli occhiali a mandorla, il pallone che si infratta dietro le tamerici, in silenzio, finchè Titta non riassume in una frase breve tutto il nostro stupore di fronte all’inarrivabile possibilità dell’eccezionale.
“Ah Neo, ma vedi npò d’annattene…”